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La tempesta - 1983-84

autore: William Shakespeare
traduzione: Agostino Lombardo
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
musiche: Fiorenzo Carpi
    


E' finito il lavoro della Tempesta 1983

Riflessioni sullinterpretazione della Tempesta di Shakespeare nella ripresa del 1983-1984. Si affronta il tema delle differenti riprese dello spettacolo nel 1948, nel 1976-1977 e nel 1983-1984.

É finito il lavoro della Tempesta    

 "È iniziato il lavoro della Tempesta.    

Da quando? Forse dal 1948 quando per la prima volta il Piccolo Teatro e Giorgio Strehler hanno affrontato La Tempesta di William Shakespeare. In mezzo, quasi duecento spettacoli, trent’anni di vita e di teatro. Da allora, dopo la rappresentazione nel giardino di Boboli in qualche notte incantata con giochi d’acqua e fuochi d’artificio e con la divina incoscienza della giovinezza, molti altri testi di Shakespeare sono venuti alla ribalta in un lungo itinerario che è approdato al Re Lear. Ed è dal Lear che, anni dopo, parte questa Tempesta. Da certe conquiste, certe comprensioni nate dal lavoro compiuto su un abissale capolavoro che è un itinerario nel buio per arrivare ad una particella di luce. Umana e poetica.    

La Tempesta è stata segretamente e costantemente presente in questa lunga indagine su Shakespeare - quindi sull’uomo e la sua storia - che io ho compiuto per molti anni e tutt’al più, oggi è venuto il momento di "riprendere" di nuovo in mano il testo e tentare di "darlo al pubblico" in uno spettacolo che mi sembra, fin dall’inizio impossibile. Perché dunque rappresentare La Tempesta? Risponderei: perché bisogna sfidare l’impossibile, perché è un dovere di uomini di teatro, ad un certo punto della propria vita e della propria conoscenza affrontare "direttamente" l’impossibile, anche a costo di esserne spezzati per strappare o tentare di strappare, un altro pugno di verità del mondo. Del resto, una scelta di teatro non è mai pura. Nasce sempre da circostanze più o meno favorevoli, da oscure sensazioni di opportunità e di necessità. Ed è nonostante tutto una scelta fatta da altri che un "direttore di teatro" poi fa sua. Davanti alla "Tempesta" non so se questa scelta riassuma un bisogno in qualche modo collettivo o se invece non sia più che altre volte un bisogno profondo della mia teatralità giunta alla sua ultima svolta.    

Non so se l’estremo messaggio umano della Tempesta, così disperatamente solo, possa rappresentare qualche cosa di "necessario" nella terribile distrazione dell’oggi. Non so se questa inquieta luce di speranza-non speranza questa interrogazione sul destino dell’uomo, possa scuotere ancora la fibra di quel riassunto della società che è sempre il pubblico.    

 La Tempesta nasce in una stagione di teatro complessa, quella del 1976/77 con molti spettacoli in Italia e all’estero, non certo nel silenzio e nel grande raccoglimento che sarebbe necessario per affrontare un capolavoro così totale. Le nostre sono ore "rubate" all’urgenza della vita di un teatro che si fa sera per sera (quasi 400 rappresentazioni l’anno passato e 500 preventivate quest’anno!), all’orribile macchina per fare spettacoli come la chiamava Jacques Copeau e alla quale il teatro non sa sottrarsi, forse perché fa parte del suo destino. Per questo lavoro si accumulano sui tavoli fogli e segni nei libri; ed è in fondo un libro sulla Tempesta quello che stiamo scrivendo. Dietro ad una interpretazione di teatro - quando essa è realizzata con autentico e amorevole sentimento scientifico oltre che poetico - ci sono sempre molti libri scritti dagli interpreti, molte ricerche compiute, molti "esperimenti" del cuore e della ragione che non vedranno la luce se non quella incandescente della ribalta.    

Noi abbiamo incominciato a scrivere il nostro libro sulla Tempesta e continueremo a scriverlo fino al momento della rappresentazione ed anche più in là, come sempre con l’incessante volontà di aggiungere una sillaba al vocabolario del mondo. Ma qui, nel cuore della Tempesta, l’uomo di teatro si trova davanti al teatro nella sua ultima essenza. Tocca o crede di toccare gli estremi limiti del teatro. Nella Tempesta c’è l’estrema stanchezza e vanità del teatro e nello stesso tempo la glorificazione del teatro e della vita. La glorificazione delusa e trionfante del teatro come il più alto mezzo di conoscenza e di storia ma, entro certi confini, sempre insufficiente a racchiudere l’inconcepibile muoversi della vita.    

 La vita che è il teatro ma che ad ogni istante supera il teatro.    

 Occorre un grande coraggio, un disperato coraggio, per fare La Tempesta di Shakespeare, oggi. Ma forse è di gesti come questi che oggi si ha bisogno".    

 Scrivevo queste parole all’inizio delle prove della Tempesta.    

Ora siamo alle ultime ore del nostro lavoro e le confermo. Le confermo soprattutto nel loro senso di una fatica disperata e di una fiducia.    

Una fiducia sempre più labile, ma pur sempre ancora fiducia che il teatro possa oggi ridare in qualche modo ad una collettività che sta quasi perdendo la ragione dell’esistenza e della convivenza umana.    

La Tempesta nasce in un momento che a me sembra abbia i connotati dell’apocalisse. Ma un’apocalisse degradata in cui tutto si confonde, tutto si annulla: rivolta, calcolato assassinio, rituale politico, dentro una spaventosa indifferenza. La storia non è stata fuori dal luogo dove costruivamo il nostro spettacolo. La storia è arrivata puntualmente dentro i muri chiusi di un teatro, in cui una piccola collettività stava lavorando sulle parole di un grande poeta per inventare sogni. Ma non sogni gratuiti. Immagini, suoni, significati che proprio "mettendosi contro" un certo tipo di storia intorno, si rivelavano un gesto attivo di rifiuto del nulla, un tentativo violento di opporsi a questo dissolvimento della ragione. Tanto più che ciò che si svolgeva sulla scena, aveva ed ha la sua ineluttabile carica di disperazione. La Tempesta è un’opera disperata. È l’estremo grido del fallimento di un progetto umano meraviglioso e non riuscito. È l’estrema domanda sul destino dell’uomo e la sua storia, delle sue contraddizioni e della sua poesia e quindi del teatro. Teatro come parafrasi più vicina d’ogni altra alla vita. Ed essa lascia dentro di noi - ora che siamo alle ultime battute - non un sapore amaro, è troppo grande per questo, ma un senso quieto, di profondo dolore, in una luce di tramonto, quando noi vorremmo che tutto nascesse nella luce di un primo giorno della creazione, una profonda pena per questo destino umano che cosi difficilmente cerca la possibilità di svolgersi per l’uomo e non contro l’uomo. Eppure, nello stesso tempo, La Tempesta che si chiude per noi l’ultima volta, proprio nell’attimo della constatazione dello scacco, ci consegna un’altrettanta quieta e profonda consapevolezza che soltanto la conquista dell’umano - che non è semplicemente pietà, giustizia o tenerezza, ma accettazione della realtà umana, così come è, oltre la dolce utopia, oltre l’irridescente schermo dei grandi progetti, la dura, cattiva realtà - soltanto la realtà conquistata e accettata, può aiutare veramente l’uomo a prendere il mondo nelle sue mani, non per distruggerlo o avvilirlo, come sembra stia facendo ad ogni tornante della sua storia.    

La Tempesta ci appare ora sempre di più, oltre ogni sua implicazione -e le implicazioni sono tutte vastissime in politica, storia, arte teatro - come un cammino di conoscenza, del suo protagonista Prospero verso la "conquista del reale" e quindi un faticoso cammino di conoscenza per noi interpreti e per noi spettatori. Ma oltre a ciò, appare anche una grande parabola del teatro. Assieme alle domande ultime sulla stessa vita e sulla storia, sulla conoscenza che Shakespeare nella Tempesta ci pone, ci sono le domande sul destino della teatralità. Cioè le domande su come e perchè noi facciamo teatro - proprio noi, gente di palcoscenico - e su cosa il teatro dovrebbe o potrebbe essere. Così, investiti anche in prima persona come lavoro di teatro, oltre che come lavoro di vivere, noi siamo arrivati a concludere uno spettacolo che è più di uno spettacolo, poiché ad esso siamo stati quasi forzati a dare tutto di noi. Perché in queste quattro ore abbiamo dovuto, in qualche modo, riassumere tutta la nostra storia passata, tutto il nostro presente e quel tanto di futuro che riusciamo a scorgere nel buio davanti a noi. Come sempre, ma più di sempre, consegnamo al pubblico uno spettacolo che nei suoi limiti, nella sua fatale imperfezione, è stato una ricerca veramente nel profondo, è stato un incessante esperimento anche se ha - come ogni esperimento reale deve avere - una sua forma compiuta, un suo risultato visibile e verificabile. Ma il nostro è uno spettacolo che apre più domande rispetto alle risposte che può dare. Questa meditazione teatrale che coinvolge l’uomo intero in una totalità che ci fa attoniti ed impotenti, non ci ha lasciati indenni. Ci ha lacerati. Resta da vedere quanto il terribile brivido di quest’opera di poesia - per me una delle più alte che il genio umano abbia saputo produrre - troverà in chi vede e ascolta la sua risonanza. Quanto di questa abbia una eco nel nostro spettacolo della Tempesta. Quanto si sia riusciti a fare perché con La Tempesta qualcosa cambi, anche se di poco, del mondo, in quanto ha cambiato gli uomini che hanno vissuto La Tempesta sul palcoscenico e in platea.    

Abbiamo sempre cercato - senza illusioni ma con qualche certezza - di fare un teatro che voleva modificare il mondo. Mai come in questa Tempesta abbiamo sentito la fallibile, disperante, trionfale grandezza e responsabilità del nostro mestiere.    

     

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